istanbul_onthebreadline

Dal giorno del mio arrivo ad Istanbul non ho fatto altro che cercare di individuare il luogo giusto dove  girare il mio video. Questo progetto è fortemente processuale per me perché ad ogni tappa devo ricominciare d’accapo e vivo la tensione costante di ogni passaggio. 

Inutile dire che Istanbul in questo momento storico viva una situazione “delicata” data dalla sua situazione politica. Inserirmi tra un passato glorioso – fatto di grande fascinazione per quella Turchia moderna voluta da Mustafa Kemal Ataturk – e la Turchia di oggi dominata da forti tensioni sociali non è affatto semplice.

Riuscire ad ottenere i permessi per girare il mio video ha comportato una forte dose di diplomazia e un lungo momento di sospensione in cui ho percorso più di 14 km al giorno in cerca della giusta visione.

Così aspettando di incontrare il console di Istanbul – nel bellissimo consolato nel quartiere centrale di Beyoğlu, all’interno del parco di Palazzo Venezia, storica sede dell’ antica Ambasciata della Serenissima Repubblica di Venezia – guardo le vecchie carte che raccontano da sotto il vetro la presenza di un giovanissimo Garibaldi in Turchia. 

 

Questo spirito da “garibaldina” mi spinge a cercare il mio kairos, il tempo propizio per essere pronta ad attivare tutti gli ingranaggi che portano alla realizzazione del mio lavoro. Cerco di mettere insieme pezzi così diversi: le questioni politiche, i permessi, il lavoro con il coro e le mie idee. Emerge sempre di più che l’impianto estetico e formale che ho pensato più di un anno fa a tavolino diventa reale e corrisponde allo spazio che scelgo per la performance canora – come fosse una struttura ossea – e si libera attraverso il gesto di improvvisazione che chiedo di fare alle ragazze del coro. 

Sta affiorando sempre di più una consonanza tra la performatività del coro e le mie azioni in città, i loro gesti ripetitivi si sovrappongo ai miei. Il lavoro di regia che faccio sul set come ovvio che sia è costruito diversamente – visto che ho circa 25 persone da dirigere –  con una ricerca dell’inquadrature, dei costumi, del trucco etc.. che progetto prima. I movimenti che le ragazze fanno in scena hanno la stessa “qualità” dei miei: lavoro con “non professioniste” che seguono le mie indicazioni, anche in questo caso l’elemento della tensione e dell’improvvisazione diviene una cifra estetica. Tutto però risulta rigido, inquadrato e regolare la parte emotiva trapela dal canto, dal vibrato come nelle mie performance la fatica ed il fiato umanizzano la meccanicità dei gesti.

Il lavoro procede come sempre per stratificazioni, come se ogni dettaglio che metto in scena sia un indizio da seguire. Dalla scelta dei colori diversi per ogni Paese delle uniformi delle ragazze, al trucco pop anni 80 che rompe la visione retorica e pesante del passato che emerge dai vestiti tradizionali, ai movimenti da automi che si alternano al luogo ed ai visi delle ragazze che improvvisamente si umanizzano. 

La voce ed il canto restituiscono come una partitura linguistica la breadline che si incarna nei luoghi utopici e a volte distopici che ho scelto, l’architettura prende forma attraverso il corpo e ci parla con la voce del canto.