La mattina mi sveglio molto presto, non mi sono ancora abituata al richiamo del muezzin che cinque volte al giorno recita l’adhān dal minareto della moschea vicino casa.
A volte rido perché l’altoparlante gracchia e arriva una voce distorta del canto di preghiera, intanto di sottofondo sento il suono delle sirene delle navi.
Dalla finestra di casa mia si vede il bosforo, i traghetti la notte mi fanno compagnia quando mi affaccio e scorgo le luci che si riflettono sul mar di Marmara. Anche qui la strada d’acqua mi conduce trasportandomi in una dimensione sospesa che mi da la possibilità di osservare questa città, così fitta di persone e voci, e di prenderne le distanze.
Qui è tutto una commistione di sensazioni che si sovrappongono tra i pinnacoli delle moschee, le antiche case ottomane tutte in legno, i veli delle donne e i gatti che sono i reali sultani di questa città.
“Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull’altra riva, l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere…” Così Orhan Pamuk parla della sua Istanbul dal mio comodino.